Archivio per gennaio, 2012

Il giorno della memoria

Pubblicato: gennaio 25, 2012 in Uncategorized
L’antica casa di Pieve era un paese nel paese.
Fino all’agosto del 1944 era una specie di paradiso terrestre. In quella data c’è stata una rappresaglia perchè il Michi, un tipo facinoroso che gli stessi partigiani hanno passato per le armi, aveva ucciso un tedesco che passava in motocicletta scatenando le ire naziste. Risultato: deportazioni di ragazzi, razzie, case bruciate. Fu da quel giorno che simili personaggi si installarono a casa nostra. Al loro arrivo, Anna la cuoca, una deliziosa ragazza, tutta panna, bionda con gli occhi celesti, piangendo come una fontana li riceve appoggiata ad un mucchio di ceste e strofinacci ammassati per nascondere la porta della dispensa con tutti i nostri tesori fra cui i vasi di terracotta con le mie oche conservate sotto il loro grasso.
Nessuno avrebbe mai immaginato che i nostri problemi più grossi non fossero causati dalla presenza dei partigiani in cantina ma, dai litigi fra alleati tedeschi e fascisti che avevano requisito il piano nobile del palazzo. Il segretario di Borghese era una persona a modo e ha aiutato più di una volta a salvar la pelle a qualcuno. Il pericolo vero erano i fascisti cani sciolti, che arrivavano da fuori, guai a trovarsi sulla loro strada. Il fatto che entrambi i nostri ospiti non si accorgessero dell’andirivieni in cantina mi ha sempre stupito. Per cui sono arrivata alla conclusione, che per amor di pace, facessero finta di non vedere cosa succedeva dietro le quinte. I così detti partigiani erano solo uomini che la pensavano diversamente, venivano, attraverso il Borgo, a portare carne, a volte funghi, a rifornirsi di medicine, sale, zucchero e caffè. Toccava sempre a me correre in bicicletta all’ospedale con il malloppo per il brodo dei malati nella cesta, rifornirmi di medicine e al ritorno, quando necessario, trascinarmi dietro il dottor Lubin che se la faceva addosso dalla paura.
In una delle barchesse erano venuti ad abitare i proprietari del Cucciolo di Venezia, si erano nascosti da noi perchè ebrei, anche a loro dava fastidio il casino del rifugio e rimanevano tranquillamente a casa. Io andavo da loro a consolarmi con una fantastica mangiata: Rina era una meravigliosa cuoca. Io per non sabagliare ero sempre affamata, è lei che mi ha insegnato a mettere via le oche. Le compravo al mercato, mi davano molta soddisfazione anche se le dovevo tenere in un recinto perché sbeccottavano le mie insalate che vendevo poi alla nonna. Le ingozzavo con pastoni di crusca, farina gialla, ortiche e quando era la stagione, bachi da seta “andati in vacca” (incapaci di fare il bozzolo) e farfalle. Una volta pronte e passate a miglior vita, bollivano a fuoco lento per ore, permettendo la raccolta del loro grasso. Cotte e tagliate a pezzi, venivano ben pigiate in vasi di terracotta bianca, cosparse con il grasso e il salnitro, riposte poi sugli scaffali della dispensa, mentre il fegato fresco, saltato al burro, era una leccornia. Le femmine, prima di finire in pentola, deponevano le uova, covate poi dalle gallinelle americane, non più di tre a testa. Ricordo la cucina economica a legna, appoggiata alla pietra del camino, con la cappa che aspira anche la carta gialla per scolare il fritto.
Finita la guerra la vita ritorna normale. Mi iscrivo alla facoltà di architettura e ritrovo gli amici che si erano rifugiati da noi che gestiscono la più buona gelateria della città. Per riconoscenza ci ospitavano sulla loro terrazza alle Zattere offrendo a tutti i più buoni gelati del mondo. Ho esagerato nell’approfittare della loro cortesia perchè un giorno mi sono sentita dire: “I toi i ne gà salvà la pelle, ti te sì drio mandarne in malora!”.

Cosa Venezia perde ogni giorno

Pubblicato: gennaio 23, 2012 in Uncategorized

Un cancello ricamato filtra il riflesso del Canale della Giudecca nel rettangolo dove trionfano giganteschi oleandri e cespugli di peonie: il regno dei gatti. Due scale esterne conducono alle abitazioni le cui facciate sono nascoste da piante fiorite. Accanto al musicologo abita un artista cubano famoso per le sue collane, mentre l’ala sulla fondamenta è il regno di un cantante rock che si diletta di arte scultorea in vendita nella sua galleria. La casa che delimita il perimetro si apre sul giardino segreto posteriore dove un albero troneggia sul prato decorato da fiori e lenzuola che sventolano al sole. E’ un albero speciale che sostiene una casa area, paradiso dei bambini.

(Estratto da Verde Venezia, i giardini della città d’acqua, di Tudy Sammartini con foto di Cesare Gerolimetto, Terra Ferma edizioni, 2011)

La Nuova di sabato 21 gennaio contiene un trafiletto: il 25 gennaio prossimo alla Casa del Cinema verrà presentato l’ultimo lavoro di Giovanni Morelli Prima la musica, poi il cinema (quasi una sonata: Bresson, Kubrick, Fellini, Gaál (Marsilio Editori, 2011).

Nell’indice del libro leggo: Il postiglione Cronos, Barry Lyndon e ancora il “cinema del Settecento” e mi rivedo con Kubrick, che abitava all’ultimo piano di Palazzo Contarini degli Scrigni in casa di miei amici a Ca’ Rezzonico, a discutere di come il personaggio era vestito davanti al ritratto di un cavaliere nella sala di Rosalba Carriera, personaggio che anni dopo ho rivisto tale e quale nelle prime scene del suo film Barry Lyndon che naturalmente è rimasto inciso nella mia mente come raro esempio di coerenza stilistica.

La cosa buffa è che Morelli ed io non abbiamo mai parlato di questo, quando sulla Fondamenta del Rimedio dove, prima di raggiungere San Giorgio, faceva rifornimento speciale per i suoi numerosi gatti. Una delle sue “bestiacce” mi aveva adottato, era il gatto nero che mi accompagnava immancabilmente al pontone strusciandosi alle mie gambe per salutarmi quando prendevo il vaporetto. Parlavamo di Biagio, il mio soriano, che educatamente accovacciato sul cuscino della sedia, mangiava tutto quello che mi mettevo in bocca, comprese le bucce di mela. Lo facevo ridere e benché, fosse stracarico, gli infilavo tra le braccia un vasetto dierba gattera che cresce vigorosa in mezzo ai miei fiori in salizada. Rideva quando mi diceva che dovevo fare il domatore perché Biagio si comportava come un cane, o quando gli raccontavo le prodezze di Molly, lo scimpanzé che divorava il gelato di crema ben nascosto nel frigo chiuso a chiave, o del dolcissimo ghepardo Mudy che, nel lontano 1952 ai tempi della mia piantagione di caffè in Kiwu, leccatami la mano ferita in un attimo l’ha trasformata in un soufflè ben riuscito. Oltre ad aggiornarci sui problemi dei nostri adorati animali, parlavamo di musica. Gli mostravo le note di Maderna che, quando ero ragazzina, veniva in giardino nella casa vecchia di Sant’Agnese ad ascoltare la pianola di de Falla suonata da un famoso pianista di cui non ricordo il nome. Il musicista aveva avuto l’autorizzazione di passare un periodo a palazzo Polignac. Dalla mia finestra a San Vio ho ascoltato brani di Beethoven, così affascinanti, ancora impressi nella memoria come pietre miliari.

Proprio loro mi hanno fatto scoprire nelle soffitte i tesori di quando la Principessa Polignac riceveva musicisti e commissionava brani a Stravinskij… Ho scoperto Djagilev e molto altro che mi ha aperto la testa.

Parlavamo di tante cose sia semplici che importanti, ogni giorno quando attraverso il ponte del Rio di San Sebastiano e non vedo più la sua sagoma appoggiata al muro il cuore mi si riempie di tristezza.